Rick Rubin ci insegna qualcosa, a suonare di meno, più imperfetto, più umano…
Nella produzione musicale contemporanea, soprattutto elettronica, regna un principio apparentemente paradossale: la potenza risiede nell’assenza. Mentre la tecnologia offre strumenti per stratificare suoni all’infinito, molti artisti scelgono invece una via ascetica. Rick Rubin, produttore icona della filosofia “meno è più”, ne ha fatto un manifesto vivente.
L’aneddoto con Benmont Tench durante le sessioni di Johnny Cash per “American IV” è esemplare: dopo aver ridotto un intero passaggio di piano a una singola nota, Rubin esortò il tastierista a “suonarne ancora meno”.
Non era un capriccio, ma la ricerca di un’essenza sonora capace di trasformare un frammento in un universo emotivo. Questa tensione verso l’essenzialità oggi permea l’elettronica più innovativa.
Artisti come Burial, Nicolas Jaar o i primi Four Tet hanno dimostrato che un basso pulsante, isolato in un tessuto di silenzi, può generare più inquietudine di un drop ipercompleto. La sintesi diventa scultura: si rimuove il marmo in eccesso per far emergere la forma nascosta. Un approccio radicale che ribalta la logica dell’abbondanza digitale: non è ciò che aggiungi a definire un brano, ma ciò che decidi di sacrificare.
Rick Rubin, pur legato storicamente a rock e hip-hop (dagli Slayer ai System of a Down, dai Run-DMC ai Black Sabbath… e soprattutto ai mitici Nirvana), ha influenzato generazioni di producer proprio con questa disciplina del vuoto.
La sua collaborazione con i Massive Attack o le produzioni per artisti come Kanye West rivelano una sensibilità affine all’elettronica: il beat di “Yeezus” è spesso un deserto di bassi distorti e grida claustrofobiche, dove ogni elemento è sotto processo. Ma perché questo minimalismo risuona così profondamente nell’era digitale? La risposta sta nella psicoacustica del vuoto. In un mondo saturo di stimoli, la musica essenziale costringe all’ascolto attivo.
Un hi-hat calibrato al millimetro, un drone lasciato risuonare per 30 secondi, un campione distorto ma solo nel canale destro: questi gesti creano spazi mentali. Il silenzio diventa parte della composizione, un respiro strutturale che amplifica l’impatto di ogni suono sopravvissuto al taglio. È un’estetica che premia la pazienza: in brani come “Archangel” di Burial, i vocal chop spettrali emergono da nebbie di crackle e pioggia solo dopo minuti di attesa, trasformando l’assenza in suspense.
La sfida tecnica è però spietata. Meno elementi significa che ogni componente deve essere perfetto: un kick mal equalizzato, una nota di synth stonata, un riverbero eccessivo diventano errori fatali. La produzione minimalista richiede un orecchio chirurgico e la volontà di uccidere i propri darlings sonori. Software come Ableton o Logic, nati per moltiplicare le possibilità, vengono usati invece come strumenti di sottrazione: si disattivano layer, si accorciano decay, si sperimentano EQ che tolgano anziché aggiungere.
Ecco la lezione di Rick Rubin.
C’è poi una dimensione filosofica: il minimalismo è una reazione alla sovrapproduzione culturale. Così come l’arte concettuale sfida il feticismo dell’oggetto, la musica elettronica essenziale contesta il consumo superficiale. Ascoltare “F# A# ∞” dei Godspeed You! Black Emperor o i silenzi calcolati di Nils Frahm è un atto di resistenza: impone di rallentare, di accettare che il non-suono sia parte della narrazione.
Rick Rubin, con il suo mantra “So che puoi farcela”, ricorda che la vera creatività spesso inizia dove finiscono le note.
In un futuro di IA generative e library infinite, la sfida non sarà creare, ma discernere. L’eredità di Rubin, al di là dei generi, è proprio questa: la grandezza non sta nel costruire muri di suono, ma nel trovare il singolo mattone che regge l’intera architettura. Perché a volte, come insegnò a Tench, perfino una nota può essere troppo.