clearence

Ma quanti sono questi dj? Sada Says

Ma quanti sono questi dj? Riccardo Sada si lancia in una lunga analisi sui numeri di chi prova a fare il dj e chi davvero ci riesce. E’ un tema molto interessante. Leggerete qui sotto il suo pensiero e la sua analisi. Vogliamo bene a tutti, qui AllaD!sco, prima di tutto a chi NON ce la fa a diventare Guetta… ma solo se non dà la colpa al sistema, alle major e al Cielo… Leggerete altro su questo tema, quindi (LT)

E ora via: Ma quanti sono questi dj?

Tutto cominciò nel cuore pulsante delle culture underground, dove generazioni di disc jockey consacrarono anni, sudore e passione a perfezionare l’arte del mixaggio. Il traguardo? Creare un set impeccabile, un flusso sonoro capace di ipnotizzare le piste da ballo. Quella cassetta, quel vinile, poi il cd e infine il file digitale rappresentavano il coronamento di un percorso sacro, l’essenza stessa dell’essere dj: selezione, tempismo, alchimia musicale. Quel mixato era il loro monumento, la prova tangibile di maestria conquistata tra le cabine fumose e i locali notturni. Oggi, invece, il panorama è capovolto. Per molti, tutto parte proprio da un mixato, spesso creato in studio con tecniche avanzate, diventato non il punto d’arrivo ma il biglietto da visita, la base di lancio. È l’ingresso in un ecosistema dove la figura del dj è sempre più intrecciata con le dinamiche dei social media e del personal branding.

Ripetiamlo? Ma quanti sono questi dj? Numerosi artisti, in ogni angolo del globo, sfruttano il ruolo non solo per suonare, ma per costruire un’immagine potentissima.

Curano minuziosamente la propria presenza online, trasformando profili in palcoscenici globali. L’interazione con i fan diventa performance, l’aspetto fisico e lo stile di vita vengono enfatizzati, diventando parte integrante del personaggio e del richiamo. Il dj set, in questo contesto, può talvolta sembrare quasi un pretesto, uno dei tanti strumenti per accrescere follower e visibilità. E qui avviene la svolta più significativa.

Dopo aver costruito una solida base di consenso, aver sfruttato appieno le opportunità offerte dai nuovi media per cementare il proprio status e la propria rete di contatti, il cambiamento di rotta è spesso non solo possibile, ma quasi naturale. Quella visibilità faticosamente costruita, quella community fedele, quella capacità di influenzare diventano capitali trasferibili. Così, molti di questi personaggi, una volta consolidata la loro posizione nell’immaginario collettivo grazie al… “ruolo dj”, virano verso altri orizzonti. Lanciano linee di moda, entrano nel mondo degli investimenti, si dedicano all’imprenditoria tech, diventano attori, influencer a tutto tondo o volti di campagne pubblicitarie internazionali. Il mixato, un tempo sacro traguardo, è oggi spesso il trampolino iniziale di un percorso più ampio, dove l’abilità musicale può essere solo una delle tessere, a volte non nemmeno la principale, di una strategia di branding personale che mira a travalicare i confini della musica stessa, pronta a migrare verso nuovi settori una volta costruita la piattaforma giusta. 

Intanto, la musica elettronica continua a crescere, dicono. I festival sono sold out, le piattaforme streaming macinano numeri record, e ogni giorno spuntano nuovi dj come funghi dopo la pioggia.

Ma dietro questa facciata scintillante si nasconde una realtà spietata che l’industria preferisce non raccontare: quella di un mercato saturo dove solo una manciata di fortunati riesce davvero a vivere della propria passione. Il database di Resident Advisor conta 134.147 profili dj sparsi per il globo. Di questi, appena 21.351 – un misero 16% – hanno almeno una data futura prenotata. Questi sono i vostri dj “attivi”, quelli che almeno sulla carta stanno ancora tentando di campare con la musica.

Scavando più a fondo, troviamo 14.327 professionisti con esperienza consolidata (oltre 20 date in carriera) e attività corrente. Ma al vertice assoluto?

Solo 2.175 dj con cinque o più show in programma. L’1,6% del totale. Uno su sessanta. Praticamente nessuno. Come in ogni industria creativa che si rispetti, la musica elettronica concentra le opportunità in una percentuale ridicolmente piccola del totale. La domanda interessante non è se sia giusto o sbagliato, ma cosa significhi per tutti gli altri che ancora credono nel sogno. 

La tecnologia ha abbassato le barriere d’ingresso, ci hanno raccontato. Addio alle costose collezioni di vinili, all’hardware proibitivo, alla competenza tecnica che richiedeva anni di studio. Oggi chiunque può iniziare con un laptop e un controller da quattro soldi. Questa “democratizzazione” ha creato qualcosa di affascinante quanto crudele: una crescita esplosiva nella partecipazione senza un corrispondente aumento proporzionale delle opportunità. Più persone che mai possono fare il dj, ma i slot nei club, le prenotazioni ai festival e le residenze non sono aumentate di pari passo.

La matematica è semplice e spietata: se le barriere d’ingresso crollano mentre le opportunità rimangono sostanzialmente invariate, la competizione si intensifica fino al parossismo.

La democratizzazione in un mercato saturo non crea opportunità; semplicemente diluisce il valore di chi c’era già. Forse è per questo che la ricerca “From Mix to Mainstage” di Audience Strategies per Toolroom Academy ha scoperto che il 76% degli artisti di musica elettronica intervistati non considera la propria carriera finanziariamente sostenibile. La realtà economica costringe l’82% a lavorare in settori estranei alla musica elettronica, con il 56% impiegato a tempo pieno altrove.

E quindi… Ma quanti sono questi dj? La geografia del privilegio è altrettanto spietata. Londra, Berlino, Amsterdam: queste tre città da sole concentrano il 25% di tutti i profili dj globali e quasi il 38% di quelli “attivi”.

Se non sei nato nel posto giusto o non hai i mezzi per trasferirti, le tue possibilità si riducono drasticamente. Molti dj che iniziano oggi si sono sentiti porre la domanda scomoda: “Ma tu produci?”. Per chi non lo fa, questo crea una sfida particolare nel mercato attuale. Il rapporto tra djing e produzione è diventato un circolo vizioso. Molti produttori iniziano a fare i dj perché le royalty dello streaming spesso non bastano per vivere. D’altra parte, i dj si buttano nella produzione per credibilità e avanzamento di carriera. È chiaro che le sole competenze di djing non bastano più per differenziarsi in un mercato affollato, ma allo stesso tempo produrre da solo non paga le bollette. Ma quanti sono questi dj?

Questa intersezione crea dinamiche perverse. Alcuni artisti eccellono in entrambi i campi, altri si focalizzano su un’area sviluppando quanto basta nell’altra per soddisfare gli standard industriali. Ma per molti diventa un doppio impegno che disperde energie e risorse senza garantire risultati.

Dopo un recente concerto al Berghain, gli analisti hanno esaminato come queste performance di prestigio influenzino la crescita digitale dei dj. John Talabot ha visto crescere i suoi ascoltatori mensili Spotify di 2.400 unità il giorno dopo il set. Amotik ha registrato un’esplosione del 66,9% nelle riproduzioni SoundCloud. Ryan Elliott ha guadagnato 189 follower Instagram correlati a 240 nuovi ascoltatori mensili Spotify.

Questi numeri dimostrano una verità scomoda: anche le performance più prestigiose si traducono in crescite digitali modeste. Il Berghain, tempio della techno mondiale, genera aumenti che per qualsiasi influencer da quattro soldi sarebbero considerati irrisori. Il problema è la conversione. Come trasformare l’energia di una performance dal vivo in crescita digitale sostenuta? Come massimizzare l’impatto di un’opportunità dorata come suonare al Berghain? La sfida sta nel creare strategie multi-piattaforma che evitino la dipendenza eccessiva da un singolo canale, ma questo richiede competenze di marketing che la maggior parte dei dj semplicemente non possiede.

La risposta dell’industria è sempre la stessa: dovete essere imprenditori, non solo artisti. Dovete trattare il djing come un’attività imprenditoriale piuttosto che come espressione artistica.

Dovete diversificare i ricavi: workshop, servizi di produzione, consulenza per eventi. Il 16% produce musica per altri, il 13% lavora nell’ingegneria del suono, l’8% insegna. Una delle tendenze più interessanti è come i dj stiano creando le proprie opportunità invece di competere per quelle esistenti. Feste in warehouse, eventi pop-up, serate indipendenti: tutti modi per aggirare il sistema tradizionale. Questo approccio DIY richiede competenze che vanno ben oltre il saper fare il dj: pianificazione eventi, promozione, sviluppo del business. Allo stesso tempo, fornisce più controllo sulla traiettoria di carriera e sullo sviluppo del pubblico, invece di aspettare passivamente le prenotazioni.

Ma anche qui la realtà è più complessa di quanto sembri. Organizzare eventi significa assumere rischi finanziari, gestire licenze e permessi, confrontarsi con venue manager, sound engineer, security. Significa trasformarsi in imprenditori dell’intrattenimento, non in artisti. L’ascesa dei social media ha reso la promozione indipendente più fattibile che in passato, certo. I dj possono costruire pubblico, comunicare direttamente con i fan, promuovere eventi senza affidarsi ai gatekeeper tradizionali. Ma questo significa anche dedicare ore ogni giorno alla creazione di contenuti, all’engagement, all’algoritmo invece che alla musica.

I 14.327 dj “attivi” con esperienza e i 2.175 con cinque o più date in programma rappresentano l’élite che è riuscita a navigare le condizioni attuali del mercato.

Alcuni si sono trasferiti nei hub principali ad alta densità di opportunità. Altri si sono focalizzati su generi specifici o stili performativi che li distinguono dai generalisti. La diversificazione dei ricavi è diventata praticamente obbligatoria per carriere sostenibili. I dj di successo trattano la loro carriera come un portafoglio piuttosto che affidarsi esclusivamente alle performance fee. I social media e la creazione di contenuti possono essere dispendiosi in termini di tempo, ma sono essenziali per farsi notare in mercati affollati. La sfida è trovare il giusto equilibrio tra fare contenuti e concentrarsi sulla musica stessa.

Il networking rimane cruciale, specialmente nelle aree competitive. Gli approcci collaborativi – supportare altri dj, partecipare a eventi collettivi, condividere opportunità – spesso producono risultati migliori a lungo termine rispetto alle strategie competitive a somma zero.

L’acume commerciale separa le carriere sostenibili dall’attività hobbistica. Comprendere le dinamiche di mercato, sviluppare flussi di ricavi multipli, trattare il djing come attività imprenditoriale piuttosto che solo espressione artistica sembrano cruciali per il successo nelle prenotazioni.

Questi numeri fanno luce sulla struttura attuale del mercato, le sue sfide e opportunità. I fan dedicati della musica elettronica danno ragioni per sentirsi speranzosi, l’industria si sta evolvendo e accelerando attraverso progressi tecnologici, cambiamenti nei modelli di consumo e crescita del mercato globale.

Ma il successo richiede comprensione di questi cambiamenti e adattamento in tempo reale. I dj che prosperano non sono necessariamente i più tecnicamente competenti, ma quelli che meglio navigano le dinamiche di mercato mantenendo genuina espressione artistica. È essenziale ricordare che comprendere questi numeri ci permette di fare scelte più informate sulla crescita della carriera e fissare obiettivi realistici in questa industria altamente competitiva. La chiave è vedere le tendenze di mercato come informazioni utili piuttosto che come problemi. O forse, più semplicemente, è ora di smettere di vendere sogni impossibili a giovani pieni di speranze e iniziare a dire la verità: che per l’1,6% sarà fantastico, mentre per tutti gli altri rimarrà solo una passione costosa.

Riccardo Sada x Sada Says x AllaD!sco