Pippo Landro, re della discografia indipendente: “ho tenuto testa alle major, loro e lo streaming sono il tarlo della musica”

Leonardo Filomeno intervista Pippo Landro, storico discografico italiano per AllaDiscoteca

“Trent’anni fa scalavamo le classifiche grazie alla dance, il 30% del mercato era nelle nostre mani. Oggi nelle chart ci trovi col lanternino, siamo stati messi a tacere dalle multinazionali”. Pippo Landro non è semplicemente un discografico, è una colonna portante della discografia indipendente. Nell’87 fonda New Music International, prima ancora gestisce a Milano lo storico Bazaar di Pippo, dove scopre, importa e vende musica proveniente da ogni angolo del pianeta. Con New Music lancia Ti.Pi.Cal. e Neja, rilancia Gloria Gaynor e le Sister Sledge, cavalca il filone latino con i Los Locos e Cecilia Gayle, s’inventa compilation cult come Mix In Time, vende tonnellate di dischi con Leone Di Lernia, strizza l’occhio al pop italiano. In mezzo a quelle note ci sono allegria, passione, fattura artigianale, anima: tutto quello che nella dance odierna, perfetta ma fin troppo cerebrale, manca. Sempre scoppiettante, dopo 30 anni resiste sul campo di battaglia. E appena sente la parola major diventa un fiume in piena: “Oggi non potrei mai prendere licenze come ‘Pump Up The Jam’ dei Technotronic, i nomi grossi ormai partono direttamente con la multinazionale di turno”.

Individuare il momento in cui la situazione vi è sfuggita di mano non è difficile… giusto Pippo Landro?

“Subito dopo l’ondata electro house e minimal, che ha tirato fuori la parte più carente dei produttori italiani. Sul finire degli anni 2000, con i grandi exploit di gente come David Guetta, Calvin Harris e poi Avicii, le major hanno subito capito che la dance stava riacquistando un appeal pop. Prima si sono pappate le indie in difficoltà, poi sono passate agli artisti più bravi. Oggi il margine di manovra per noi è inesistente”.

Senz’altro le radio non sono più d’aiuto da tempo.

“Hanno perso spirito iniziativa, cavalcano l’onda di un disco solo se è già un successo sui social o sui iTunes, dando priorità ai prodotti stranieri. Con questa modalità, anche chi negli anni ‘90 dettava legge ormai fa fatica ad imporre qualcosa”.

Una produzione dance, in quel periodo, come diventava un successo pop? Pippo Landro, aiutaci a capire

“Se il singolo aveva dei riscontri in discoteca, i programmatori lo inserivano subito nelle loro scalette, la radio faceva da megafono per la massa. Per chi non frequentava i locali, quel disco in rotazione sulla radio “x” rappresentava comunque una novità. Oggi su certi network, soprattutto quelli orientati sul pop, le novità spinte sono quelle prodotte da gente che lavora all’interno della stessa radio. L’obiettività è andata a farsi benedire”.

Negli anni ’90 non era poi così diverso, soprattutto se guardiamo a realtà come Radio Deejay o 105.

“La differenza è che quelle produzioni, comunque, spiccavano il volo da sole un po’ in tutte le classifiche, la scusa per promuoversele sulle proprie frequenze non mancava”.

Perché all’estero non abbiamo produzioni italiane in classifica ormai da lustri?

“Negli anni ’90 godevamo di buona luce all’estero grazie ai posizionamenti alti nelle classifiche radiofoniche e di vendita italiane, il supporto Oltremanica era una conseguenza del risultato locale. Non ci sono più stimoli per fare bella musica perché non ci sono più le possibilità economiche per investire su nuovi artisti. Un video di Neja, nel ’99, andavamo a girarlo tranquillamente in America: i soldi spesi per realizzarlo provenivano dagli incassi di un altro disco, e avevamo la certezza che quel video avrebbe fatto il giro del mondo, facendoci incassare altro denaro. Non credo sia una questione di dischi brutti o belli, anche molti prodotti stranieri sono oggettivamente brutti, o scopiazzati da quelli italiani degli anni ’90. I programmatori italiani ti diranno sempre che i nostri dischi non sono all’altezza di quelli stranieri, ma non è vero”.

Anche sul ruolo del dj il tuo giudizio è piuttosto severo.

“Non sono più delle figure istituzionali. Un tempo influenzavano il mercato, nei locali suonava gente che conosceva la musica, che era in grado creare una sequenza in grado di far decollare la serata. Da ragazzini che si accontentano di suonare gratis o per 15 euro cosa puoi aspettarti?”.

Hai detto: “In Italia esiste una sottocultura musicale spaventosa”.

“Nel migliore dei casi, i ragazzi usano Spotify, altrimenti optano per quei programmi che ti permettono di estrarre l’audio da YouTube. Questa la chiami cultura? Molte canzoni sono tarate per l’ascolto sullo smartphone, dove non si può pretendere una qualità audio eccellente, e di conseguenza che un brano sia fatto bene o male ha poca importanza. Mi riferisco ai tristissimi youtuber, ai fenomeni alla Rovazzi, gente che non sa cantare, ma che ha dalla sua una schiera di fan infinita”.

Rovazzi oggi, Mimmo Amerelli negli anni ’90: qualcuno potrebbe obiettare che la differenza sia solo nella modalità di diffusione.

“Ma anche un disco di successo, a noi indipendenti, oggi porta zero nelle casse. Spotify va bene per i big che totalizzano miliardi di ascolti, ma se noi indie facciamo 500mila visualizzazioni su YouTube, a malapena incassiamo 15 euro”.

Insomma, per vendere qualche supporto fisico l’artista deve fare il firmacopie?

“O farsi illudere per qualche mese dal successo effimero dei talent (vedi i concerti annulla di Elodie & co, ndr). La realtà è che molti artisti devono aspettare che arrivi l’estate, per cantare gratis nelle piazze. Sorrido quando si parla di dischi d’oro vinti con lo streaming. Posso capire iTunes, ma se un brano la gente non lo scarica e lo ascolta e basta, quel disco d’oro che valore ha?”.

Pippo Landro, il momento più esplosivo per la New Music?

“Quello in cui uscì il primo volume della compilation Los Cuarenta, primavera ’90: superammo, nelle vendite, la raccolta di Sanremo, pubblicata da una major. Con la mia distribuzione, che aveva lo stesso nome dell’etichetta, si lavorava giorno e notte per spedire i dischi in tutta Italia. E i nostri fatturati sulle raccolte non erano poi così diversi da quelle delle multinazionali. Quella Los Cuarenta ridiede linfa al mercato delle compilation, ormai appannato dopo i fasti delle raccolte della Baby Records negli anni ’80”.

In un campo minato come questo l’amicizia e la gratitudine possono esistere?

“Sono pochi gli artisti che, una volta famosi, non vanno fuori di testa: credono che quel successo sia tutto merito loro, in realtà lo è solo in parte. Sai in quanti ex New Music, dopo aver tentato nuove avventure, magari con una major, dopo anni mi hanno dato ragione?”.

Tra voi discografici non ne parliamo…

“La torta è così piccola che si lotta per accaparrasi le briciole. Esiste forse la stima, ma dove ci sono i soldi l’amicizia, di solito, si fa da parte”.

Il disco che ti ha regalato più soddisfazioni in assoluto?

“La reinterpretazione di ‘Can’t Take My Eyes Off You’ di Gloria Gaynor. Era scettica, non se la sentiva di cantarlo, mi sono imposto. Vendemmo 12 milioni di dischi, un successo mondiale, una rinascita. Al pari di questo metterei Black Machine – ‘How Gee’, un sempreverde, un pezzo che è rimasto. Proprio come quei classici di James Brown che ascoltavo da piccolo”.

di Leonardo Filomeno, Intervista pubblicata su Alladiscoteca il 30 marzo 2017

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