Sui sound, sui generi, sui generis… ovvero: la musica si divide in…
Non si divide ma spesso divide. Sperimentazione poca, idee esaurite, nuove generazioni che ti suggeriscono cose che tu conosci in modo trito e ritrito. E poi… Poi c’è quello che va ai festival pop dance, che pensa a divertirsi, spesso solare, maranza, apparentemente superficiale, lui non balla lui salta. No drop, no party. Poi c’è il fratello minore che condivide gli auricolari e la trap e il rap. Che ti apostrofa con un fra’, un bro’, uno zio e che sulle panchine. Non parla ma whatsappa, non rappa né scappa, si muove a branco. Il suo Tomorrowland è il parchetto.
Poi c’è quello che va in pseduo locali allestiti da centri sociali. Come un ricerca(t)tore, un protagonista, aspirante influencer, un musicurioso, a caccia di mode e modi nuovi di intendere l’elettronica. È innocuo e involontariamente se la tira.
Sui sound, sui generi, sui generis…
Poi c’è quello a caccia di escort camuffate da neo educande, a caccia di coca e di bottiglie da sbocciare, tavoli da organizzare e house music da ballare. Il suv è parcheggiato in terza fila, quella di stasera è la terza f**a.
Infine, lui, il dotto, il colto, che tutto il resto non è merda ma insomma: adora Berlino, ha lo sguardo da tenebroso e navigato, saputello mai cresciuto, finto intellettuale, con barba fintamente mal curata, sempre vestito di nero, estimatore e acquietato integralista di una musica elettronica che deve essere a tutti i costi techno, di quei dj che conosce solo fortunatamente lui.
Poi ci sono io. Che amo la progressive di Grum e la trance di Above & Beyond.
Che devo ascoltare frasi fatte (“la trance o i trans?”, “la psy è il futuro”, “hai sentito Armin all’ASOT”, “la trance non è radiofonica in Italia” e “la melodic techno è la nuova trance”). È dura la vita. Ma così va la vostra playlist. La mia? Non ce l’ho. O forse è nascosta. Amen, allora io immagino.
Immagino cosa? Il futuro. Che l’evoluzione dell’elettronica raggiungerà livelli impensabili unendo scienza, tecnologia e arte in un ibrido che potremmo definire musica-neuro-elettronica. I dj chi li vedrà più? Io no. Saranno antiquariato. Antichi maestri di consolle e mixer, si trasformeranno in veri e propri programmatori neurali o degli Amadeus 7.0 (mamma mia) lasciando la creatività a metà strada tra l’intuizione umana e il calcolo algoritmico.
Non si tratterà più di selezionare tracce da una playlist o di manipolare fader con precisione millimetrica. Il dj del futuro (se r-esisterà) sarà equipaggiato con un’interfaccia neurale capace di interpretare le onde cerebrali e i picchi emotivi del pubblico in tempo reale, creando paesaggi sonori che si adattano istantaneamente agli stati d’animo collettivi. Le sale da ballo come le conosciamo oggi saranno presto un lontano ricordo. Gli impianti audio, per quanto avanzati, non saranno più sufficienti a garantire l’esperienza immersiva che i futuri raver richiederanno.
Sui sound, sui generi, sui generis… Gli spazi fisici saranno sostituiti da campi di realtà aumentata dove ogni partecipante sarà equipaggiato con visori e tute sensoriali, in grado di proiettare la mente in universi sonori tridimensionali.
Ogni colpo di kick sarà percepito non solo dalle orecchie bensì attraverso vibrazioni tattili distribuite sul corpo, garantendo un’esperienza multi-sensoriale che farà sembrare i rave del passato poco più che fiere di paese (l’amico Bortolotti, e non solo lui, riuscì a predire tutto questo). La musica del domani non si limiterà ad agire sulle onde sonore, ma interagirà direttamente con il sistema nervoso degli ascoltatori. Un complesso sistema di feedback biometrico permetterà di sincronizzare i bpm della traccia con il battito cardiaco collettivo, creando un loop di stimolo-risposta tra la pista da ballo (o meglio: la piattaforma virtuale) e la musica stessa.
Alcuni pionieri della neuro-musica sostengono che questo tipo di connessione potrebbe persino migliorare la salute degli ascoltatori: ballare diventerà un’esperienza terapeutica, dove i ritmi ipnotici non solo stimoleranno l’euforia, ma contribuiranno a stabilizzare i battiti cardiaci, ridurre lo stress e persino migliorare la qualità del sonno post-rave. Ma come si evolveranno le figure di riferimento dell’attuale scena elettronica?
In questo futuro distopico e distopirla, ma anche irresistibilmente affascinante, non saranno più degli artisti solitari in cima a una piramide di casse, ma collaboreranno con intelligenze artificiali in grado di generare suoni mai sentiti prima, basati su modelli matematici complessi.
Il concetto di “genere musicale” si dissolverà nel mare infinito delle possibilità sonore offerte dall’AI, che sarà capace di combinare pattern di drum techno berlinese con melodie modali di musiche etniche dimenticate e suoni di sintetizzatori quantistici. Mixalo, l’algoritmo. Pompalo ‘sto deep learning avranno imparato, attraverso anni di ascolto e analisi di milioni di tracce, a prevedere con precisione chirurgica quando il pubblico desidera un drop devastante o una pausa rilassante. Ma non saranno più gli algoritmi a servire la musica al pubblico: saranno gli ascoltatori stessi a determinarne il flusso.
Sui sound, sui generi, sui generis…
Attraverso sequencer biometrici collegati ai movimenti oculari e alla respirazione, ogni individuo in pista avrà la possibilità di influenzare la struttura della traccia in tempo reale. Creando una sinergia mai vista tra artista e pubblico. Un battito di ciglia potrebbe causare un cambio di ritmo, un respiro affannoso potrebbe intensificare il bassline, mentre una risata nervosa potrebbe inserire un glitch improvviso nella melodia. Naturalmente, non tutti si adatteranno facilmente a questa nuova dimensione musicale. I nostalgici del vinile saranno i primi a lamentarsi della perdita del contatto fisico con i dischi, del calore del suono analogico e dell’intimità dei piccoli club. Per loro, saranno create piattaforme olografiche in grado di simulare l’esperienza di un set su vinile, completo di giradischi vintage proiettati nel vuoto. Ma questa sarà solo una concessione momentanea: il futuro appartiene ai flussi digitali, alle onde quantistiche e ai sequencer neurali.
La produzione musicale stessa sarà profondamente trasformata, lo sento. Gli studi di registrazione verranno sostituiti da hub virtuali dove musicisti di tutto il mondo potranno collaborare senza mai uscire di casa, nel fisico. Nell’atomo saranno pod in un macrosistema, presente Matrix e gli embrioni in via di sviluppo? Ecco, quelli. I suoni non saranno più registrati ma sintetizzati in tempo reale, manipolati da AI che conoscono a memoria le leggi dell’acustica. Le abitudini di chi si menta e della fisica sonora. Si parla già di nuove tecniche di composizione basate su algoritmi genetici, in cui le tracce evolveranno come organismi viventi, adattandosi e mutando a seconda delle reazioni del pubblico. Ironia della sorte, in questo futuro iper-tecnologico, i dj stessi perderanno gran parte del controllo che hanno attualmente.
Il pubblico, gli algoritmi e le variabili biometriche collettive decideranno la direzione della musica. Però una cosa resterà invariata: l’arte del tempismo del drop. Che si tratti di un AI, di un battito cardiaco o di una sudorazione particolarmente intensa, il drop arriverà sempre al momento perfetto: quello che ti fa godere come una scimmia. Quando meno te l’aspetti, tiè, è lì: esattamente quando lo si desidera.
Sui sound, sui generi, sui generis…
Sui sound, sui generi, sui generis? Il sound è l’essenza stessa dell’identità di un essere umano, è la sua firma, la sua unicità. Se il pezzo è una coglionata, al 99 per cento dei casi il suo fautore è un coglione; la combinazione irripetibile di frequenze, ritmi e texture rendono tutto inconfondibile, tracciabile e riconoscibile. La traccia lascia la traccia. Okay, i generi musicali servono per ordinare il caos creativo e classificazioni come house, techno, drum’n’bass, trance, dubstep fanno male al fegato e raramente al salvadanaio; offrono un terreno sicuro per orientarsi tra le miriadi di tracce prodotte ogni giorno ma lasciano una realtà ben più sfumata nell’aria. I confini tra generi non sono mai stati tanto permeabili come nel nuovo millennio. La commistione di stili è all’ordine del giorno, e il risultato sono continui nuovi sottogeneri che fioriscono dal nulla come funghi dopo una notte di rave.
La velocità con cui nascono e si dissolvono vechi e nuovi generi è incredibile e questo è solo segno che la musica elettronica è in continua espansione, proprio come l’universo.
E proprio quando pensiamo di aver finalmente capito come funziona, arriviamo a ciò che è sui generis. La musica elettronica, per sua natura, sfida costantemente le definizioni. Il concetto di sui generis, cioè “di un genere a sé”, diventa particolarmente affascinante quando ci confrontiamo con artisti che rompono completamente gli schemi. Alcuni produttori non si accontentano di seguire i dettami di un genere specifico. Creano la loro personale visione sonora, un linguaggio musicale che non si lascia classificare. Bisogna come presupposto sfuggire a qualsiasi categorizzazione.
La reazione naturale alla rigidità delle etichette è d’obbligo. Là dove la sperimentazione e la contaminazione sono all’ordine del giorno, essere “di un genere a sé” è spesso l’unica via possibile per scappare dal gregge. Siamo a bordo di una nave in un viaggio perpetuo attraverso i moti ondosi dei sound. Dovremmo essere pirati non solo del sample ma anche della fantasia. Siamo dei Capitan Harlock del groove, incarniamo indipendenza, ribellione e spirito avventuriero, così lontani e così vicini ai circuiti del mainstream.